Persona che ha un neonato tra le braccia

Allattare al seno non aumenta il rischio di trasmissione del virus dell'epatite C

Non esiste alcuna evidenza sulla trasmissione madre-figlio del virus dell’epatite C attraverso l’allattamento al seno1. In accordo con le linee guida del Centers for Disease Control and Prevention2, quindi, la presenza del virus HCV nella madre non deve scoraggiare assolutamente l’allattamento al seno. Può essere invece prudente astenersi in caso di capezzoli con ragadi o sanguinanti. Fatta questa eccezione, la trasmissione verticale del virus HCV da madre a figlio non può, però, essere esclusa. Sebbene sia una modalità di contagio poco frequente (si stima che circa il 5% delle donne infette con HCV trasmetta il virus al proprio figlio)3,4, come altri virus, anche quello dell’epatite C può essere trasmesso se la donna ha sviluppato un’infezione primaria, ricorrente o cronica5. Anche se le modalità di trasmissione non sono ancora del tutto chiare, poiché la trasmissione del virus HCV avviene mediante contatto diretto con sangue infetto6, il momento a maggior rischio di contagio è il travaglio del parto (definita infezione perinatale, riguarda circa il 70% dei casi di trasmissione materno-fetale)7 cui si affianca la trasmissione intrauterina. A sostegno della prima ipotesi, alcuni studi hanno rilevato che nelle ore successive al parto il siero dei bambini infetti non mostrava positività per l’RNA di HCV, ma solo in un secondo momento8. In altri studi, invece, è stato possibile riscontrare l’RNA virale nel liquido amniotico9 o nel siero del neonato nelle ore immediatamente successive alla nascita10. Alcuni fattori sembrano condizionare la trasmissione del virus HCV da madre a figlio, sebbene non ci sia ad oggi alcun modo per quantificare il rischio e definirne delle associazioni con l’effettiva trasmissione dell’infezione11. Tra i fattori emersi nei diversi studi internazionali che si sono succeduti nel tempo:

  • l’elevata carica virale nel sangue della madre12
  • il sesso femminile del neonato13
  • la rottura prolungata delle membrane14
  • la tossicodipendenza della madre, attiva o pregressa15
  • la coinfezione con HIV16,17.

Le conseguenze non sono particolarmente rilevanti poiché l’infezione fetale non sembra aumentare il rischio di aborto spontaneo o morte fetale intrauterina18. L’infezione inoltre non interferisce con lo sviluppo psicofisico del bambino19 ed è generalmente asintomatica20, anche se un numero limitato di neonati può sviluppare una lieve epatite durante i primi due mesi di vita21. Se si considera però che l’epatite C in età pediatrica non tende alla guarigione spontanea e che è stato ampiamente dimostrato che la progressione del danno epatico è direttamente proporzionale alla durata della malattia, è evidente comprendere che la persistenza del danno epatico indotto dal virus per tanti anni può indurre a fibrosi più o meno grave in età adulta22. Attraverso una tempestiva diagnosi (effettuata tramite il rilevamento di una risposta anticorpale diretta contro il virus all’età di 12 e 18 mesi, quando cioè gli anticorpi materni non sono più presenti nel bambino, o, per una diagnosi più precoce, ricorrendo a PCR per il rilevamento del genoma virale nel siero del neonato23) e idonee misure profilattiche e terapeutiche è oggi possibile ridurre in modo consistente il rischio di trasmissione verticale dei virus e diminuire la gravità dei danni causati dalle infezioni virali24.